Razionale. Il Comitato congiunto della Società Europea di Cardiologia (ESC) e dell’American College of Cardiology (ACC) ha recentemente revisionato i criteri per porre diagnosi di infarto miocardico, puntualizzando, nel documento pubblicato congiuntamente, il ruolo centrale del criterio biochimico ed indicando nelle troponine cardiache il marcatore di riferimento ai fini diagnostici. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, assai poco è dato sapere sul reale utilizzo, nella pratica clinica corrente, dei “nuovi” come dei “vecchi” marcatori di danno miocardico. Il presente studio è stato effettuato coinvolgendo l’intero panorama delle Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC) italiane proprio per valutare il comportamento attuale dei cardiologi italiani nell’uso dei marcatori biochimici per porre diagnosi di infarto miocardico.
Materiali e metodi. A tal fine è stato utilizzato un breve e semplice questionario, inviandolo ad ogni UTIC del territorio nazionale.
Risultati. Il ritorno utile in termini di risposte valutabili per l’analisi è stato assai elevato (87.6%, 303/346 delle UTIC intervistate). Il marcatore più utilizzato è risultato la creatinchinasi-MB, tuttavia il metodo di misurazione in concentrazione “di massa” è risultato utilizzato solo in una minoranza dei centri (38%). Inoltre, più del 60% dei centri ancora oggi misura marcatori obsoleti come la lattato deidrogenasi o l’aspartato aminotransferasi. Le troponine cardiache sono utilizzate solo dal 70% delle UTIC e di norma in aggiunta ai “vecchi” marcatori. Infine, solo il 14.5% delle UTIC possiede linee guida scritte per porre diagnosi di infarto miocardico; per di più, i criteri utilizzati a tale scopo differiscono marcatamente tra i diversi centri, indipendentemente dal marcatore utilizzato come “standard di riferimento”.
Conclusioni. I risultati di questa indagine dimostrano una forte eterogeneità tra le UTIC nella scelta così come nell’applicazione dei criteri biochimici per porre diagnosi di infarto del miocardio. Un elevato grado di confusione sembra essersi accumulato negli anni tra i cardiologi italiani e, in base ai dati del presente studio, la situazione appare retrodatare rispetto alla recente revisione dei criteri per porre diagnosi di infarto pubblicata dall’ESC/ACC.