Alcuni studi hanno recentemente dimostrato come un intervento antiaritmico specifico, il defibrillatore impiantabile, possa significativamente ridurre la mortalità per ogni causa in alcuni sottogruppi di pazienti con cardiopatia ischemica postinfartuale ad elevato rischio. La disponibilità di una valida ed efficace opzione terapeutica atta a prevenire la morte improvvisa, ma ad alto costo e per questo non proponibile in modo estensivo, ha nuovamente portato alla ribalta il non ancora risolto problema della corretta identificazione dei pazienti a rischio di tachiaritmie ventricolari maligne dopo infarto. A tale scopo sono disponibili molteplici test diagnostici non invasivi nonché lo studio elettrofisiologico endocavitario. Uno dei limiti più evidenti dei test non invasivi è rappresentato dall’elevato numero di risultati falsi positivi, con conseguenti bassi valori di specificità e valore predittivo positivo. Questo fenomeno è certamente riconducibile all’eziopatogenesi multifattoriale delle tachiaritmie ventricolari maligne nel postinfarto. È infatti ben dimostrato che la presenza di un solo fattore di rischio non invasivo in assenza degli altri non risulta associarsi ad una frequenza di eventi aritmici significativamente più elevata di quella riscontrabile nei soggetti privi di qualsiasi indice di rischio aritmico. Poiché è ragionevole ipotizzare l’interazione di diversi sistemi nello spiegare l’innesco di un’aritmia maligna, l’uso integrato dei diversi marker di rischio al fine di migliorare l’accuratezza diagnostica appare certamente proponibile; ovviamente, la definizione del rischio aritmico va attuata dopo aver considerato e, se necessario, corretto l’ischemia miocardica residua, fondamentale fattore modulante l’aritmogenesi. I dati della letteratura confermano inoltre l’opportunità di eseguire uno studio elettrofisiologico endocavitario in tutti i pazienti con due o più indicatori di rischio non invasivo; l’autore ritiene che ciò sia ragionevole solo nel caso in cui sia percorribile la possibilità di un impianto di defibrillatore a scopo profilattico. Qualora tale opzione (che l’autore ritiene in cuor suo quella più opportuna) non possa essere perseguita l’esecuzione della stimolazione ventricolare programmata non sembra essere giustificata da un punto di vista del rapporto costo-efficacia; un’accurata ottimizzazione del trattamento medico di prevenzione secondaria, eventualmente comprensivo di amiodarone in associazione al necessario trattamento betabloccante, costituisce infatti una ragionevole e valida alternativa. Nella presente revisione viene pertanto eseguita un’analisi dei principali metodi proposti per l’identificazione del paziente infartuato ad elevato rischio aritmico, dei vantaggi e limiti di ogni tecnica diagnostica con le conseguenti implicazioni operative.