La terapia medica dell’infarto miocardico si è progressivamente modificata in questi ultimi 30 anni. Il lag phenomenon, ovvero il tempo che è intercorso tra la comparsa di un’evidenza scientifica di rilievo e la sua adozione nella pratica medica, è stato variabile, soprattutto diverso da trattamento a trattamento. È stato probabilmente brevissimo per gli inibitori dei recettori GP IIb/IIIa come pre-trattamento dei pazienti che vanno incontro ad angioplastica coronarica d’urgenza dopo un infarto, breve per gli ACE-inibitori, abbastanza breve anche per il calo dei calcioantagonisti dopo la pubblicazione di evidenze controverse; lungo invece per i farmaci più importanti, i betabloccanti. Questi ultimi farmaci, tuttavia, sono oggi impiegati abbastanza estesamente in Italia, anche se alcuni progressi debbono ancora essere compiuti: il loro uso, ristretto a meno del 10% dei malati ricoverati nei primi anni ’80, attualmente supera il 60%.
Si è trattato di uno sviluppo e di un’evoluzione progressiva e continua, non suddivisa in due epoche precise; né la trombolisi ha influito in modo evidente su questo processo. L’introduzione della trombolisi ha molto più semplicemente suddiviso i malati di infarto in due categorie: quelli candidabili a questa terapia e gli “altri”. Due gruppi molto diversi per caratteristiche cliniche e per prognosi: quella dei malati sottoposti a trombolisi è molto più favorevole. La grande mole di pubblicazioni su casistiche sottoposte a trombolisi rischia di ingenerare e diffondere un concetto errato: che la malattia sia oggi concettualmente diversa da ieri. Così crediamo che non sia; è probabilmente più vero sia che i concetti- guida della terapia medica del malato infartuato non sono affatto mutati nel tempo, sia che in tutti i malati la terapia medica e la rivascolarizzazione sono oggi impiegati più appropriatamente di ieri.