In questo numero




processo ai grandi trial

Lo studio PARTNER:
la cardiologia interventistica si prepara
ad invadere nuovi territori della cardiochirurgia

L’armata degli emodinamisti avanza con passo deciso verso la conquista di nuovi territori, fino a poco tempo fa considerati regno incontrastato della cardiochirurgia. Dopo la caduta delle barriere per il trattamento dei pazienti con malattia coronarica trivasale e del tronco comune, la cardiologia interventistica punta senza indugi al trattamento delle malattie valvolari. Da quando Cribier, nel 2002, ha dimostrato la possibilità di impiantare una valvola aortica per via percutanea nell’uomo, la metodica si è rapidamente diffusa. Lo studio PARTNER ci fornisce le prime evidenze scientifiche e ci mostra che in pazienti con stenosi aortica severa non candidabili alla chirurgia, l’impianto di una protesi valvolare aortica per via percutanea (TAVI) è superiore alla terapia standard, rappresentata da valvuloplastica aortica con pallone e terapia medica. Sergio Berti, invitato al processo come autorevole esponente del mondo interventistico, sottolinea come la TAVI possa essere considerata il nuovo standard di cura per i pazienti non candidabili all’intervento chirurgico convenzionale; l’elevata incidenza di ictus periprocedurale, le complicanze vascolari e la mancanza di un follow-up a lungo termine invitano tuttavia ad una giustificata cautela. I toni della controparte cardiochirurgica, rappresentata da Antonio Maria Calafiore e Lorenzo Menicanti, sono decisamente più accesi: la metodica ha avuto, a loro parere, una diffusione incontrollata e ingiustificata dato l’altissimo costo e l’assoluta mancanza di dati su potenziali complicanze e follow-up a lungo termine. Ma il punto più interessante della loro arringa è che i pazienti con stenosi valvolare aortica severa vengono giudicati “non operabili” in base a decisioni mediche e non cardiochirurgiche ed i sistemi di “scoring” comunemente usati spesso sopravvalutano il rischio chirurgico per giustificare terapie alternative teoricamente considerate a basso rischio.
Insomma una diatriba accesa, quella tra emodinamisti e cardiochirurghi, che con il PARTENR è solo all’inizio ed è destinata ad infiammarsi ancor di più nei prossimi mesi, quando saranno discussi i risultati della coorte A dello studio, che confronta direttamente la TAVI con la tecnica standard di intervento cardiochirurgico. •




rassegne

Sindrome di Brugada:
il difficile approccio ai pazienti
con diagnosi dubbia

La diagnosi di sindrome di Brugada può essere talvolta problematica per il cardiologo clinico; i tre diversi pattern elettrocardiografici con cui può presentarsi la malattia, di cui solo uno veramente diagnostico, e la transitorietà delle alterazioni elettrocardiografiche, rappresentano le insidie principali. Nei tanti casi dubbi, è spesso difficile stabilire un iter diagnostico-terapeutico e soprattutto effettuare una corretta stratificazione del rischio senza l’ausilio dell’elettrofisiologo; tuttavia, poiché l’unica terapia è attualmente rappresentata dal defibrillatore impiantabile (ICD), è fondamentale identificare quali sono i soggetti a maggior rischio, per i quali l’impianto dell’ICD diventa mandatorio. 
La rassegna di Pietro Delise et al. è scritta da elettrofisiologi per cardiologi clinici non necessariamente esperti di aritmologia e affronta le problematiche della sindrome di Brugada in maniera didattica. L’argomento è tuttavia complesso e ci sono certezze solo per i soggetti con ECG tipo 1 presente in condizioni basali e con sincope o arresto cardiaco, che vanno considerati indiscutibilmente ad alto rischio. Tante sono invece le situazioni dubbie: come comportarsi nei soggetti con sincope non sicuramente cardiogena e negli asintomatici? Quale valore dare allo studio elettrofisiologico?
La rassegna cerca di rispondere a queste domande riportando dati raccolti e pubblicati dagli autori stessi, dai quali emerge l’utilità di applicare, nella stratificazione del rischio, un approccio multiparametrico comprendente la presenza di sincope, la familiarità per morte improvvisa e il risultato dello studio elettrofisiologico. •





L’ECG pediatrico ovvero il tallone d’Achille del cardiologo

Il tracciato di un neonato cianotico che può improvvisamente arrivare in una notte di guardia rappresenta un forte stimolo ansiogeno in buona parte dei cardiologi.
Il cardiologo dell’adulto, impavido guerriero nella trincea della malattia coronarica, scopre allora il suo punto debole di fronte ad un ECG che esula dalla comune pratica quotidiana. L’ECG pediatrico rappresenta invece la “normalità” per
Gabriele Bronzetti et al. che, nella loro rassegna, si calano nelle vesti del cardiologo “adultologo”, cercando di interpretare i suoi dubbi e le sue incertezze di fronte all’ECG di un bambino. Il taglio prettamente didattico della rassegna si fonde con uno stile leggero che rende la lettura del lavoro estremamente piacevole; alcune perle, come la “ricetta” per una buona misurazione del QT, fanno dimenticare di essere di fronte ad una trattazione scientifica. 
Il vero eroe della rassegna di Bronzetti è comunque l’ECG, uno strumento moderno che per immediatezza e basso costo è in grado di competere con l’imaging più sofisticato e, per più virtuosi, rappresenta un vero e proprio esercizio intellettuale nel cercare di fare la diagnosi con l’immaginazione prima di demandarla alla diagnostica per immagini.




L’arteria radiale: quando, come e perché usare un accesso da molti ritenuto ancora “scomodo”
Dal 1989, anno in cui Campeau eseguì per la prima volta una coronarografia dall’arteria dell’avambraccio, l’accesso radiale si è diffuso ma non con la rapidità che ci si aspettava.
I vantaggi, rispetto al tradizionale accesso femorale, sono in realtà indiscutibili:
la possibilità di mobilizzare prima il paziente,
la riduzione del carico di lavoro per il personale medico e paramedico e soprattutto la riduzione delle complicanze vascolari.
In un’epoca in cui nuovi e più potenti farmaci antitrombotici vengono utilizzati soprattutto nelle sindromi coronariche acute, è sempre più difficile trovare un punto di equilibrio tra eventi ischemici ed emorragici: la possibilità di ridurre i sanguinamenti utilizzando un accesso arterioso a minor probabilità di complicanze dovrebbe quindi attirare l’attenzione dei cardiologi interventisti. In realtà, nonostante l’accesso radiale venga indicato anche nelle linee guida ESC per le sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST come strategia per la riduzione dei sanguinamenti nella sede di accesso, il suo utilizzo stenta a decollare e la popolazione dei cardiologi interventisti si divide sempre più nettamente in “radialisti” e “femoralisti”, due vere e proprie scuole di pensiero in perfetta antitesi.
La rassegna di Roberto Lorenzoni et al. ci offre un’ampia panoramica dei vantaggi che l’approccio radiale offre nell’interventistica non solo coronarica ma anche periferica;
il vero scontro tra radialisti e femoralisti è invece rimandato ad uno dei prossimi numeri, in cui lo studio RIVAL, che ha randomizzato pazienti con sindrome coronarica acuta ad approccio radiale vs femorale, sarà oggetto di un attesissimo “processo”. •





informal
mente
Un viaggio nella simbologia del cuore
Il simbolo è un elemento della comunicazione che esprime contenuti di significato ideale e lo studio dei simboli è un’affascinante quanto complessa dottrina al confine tra arte e scienza. Seguire nella storia le tracce di un simbolo dai molteplici e diversi significati come il cuore è un’impresa degna di Robert Langdon, professore universitario, esperto di simbologia ed eroe immaginario dei celeberrimi romanzi di Dan Brown. L’uomo ha sempre considerato il cuore e non il sistema nervoso centrale il punto di riferimento dei propri sentimenti, conferendo a quest’organo una nobile funzione espressiva e nello stesso tempo comunicativa; quali siano però le radici di tale convinzione è difficile stabilirlo.
Renzo Lodi e Corrado Lavini riescono a seguire le tracce del simbolo “cuore” nella storia dell’umanità, dai Sumeri, nei cui testi il cuore viene già associato a sentimenti di gioia e dolore, agli Egizi, che pesavano materialmente il cuore dei defunti per giudicare la loro destinazione nell’aldilà, per arrivare al celebre romanzo di Edmondo De Amicis e alle varie raffigurazioni del cuore nelle arti maggiori e minori. Insomma, un vero proprio viaggio nella simbologia del cuore in una lettura densa di riferimenti storici e culturali che ci insegna come un simbolo possa celare molteplici significati e racchiudere pezzi della nostra storia.




studi osservazionali

La tecnica “frozen elephant trunk”:
un trattamento ibrido per le patologie estese dell’aorta toracica
Il trattamento degli aneurismi dell’arco aortico che si estendono distalmente all’origine dell’arteria succlavia sinistra rappresenta una sfida per il cardiochirurgo. L’approccio più comunemente utilizzato è chiamato “elephant trunk”. Si tratta di un intervento in due tempi; nel primo si effettua una sostituzione completa dell’arco aortico lasciando un tratto di protesi vascolare libera in aorta discendente, chiamato appunto “elephant trunk”. Successivamente si rilascia un’endoprotesi in aorta toracica discendente, anastomizzandola al colletto dell’“elephant trunk”. Tale metodica si associa ad una non trascurabile mortalità, probabilmente legata al fatto di dover effettuare due diversi interventi, senza contare la possibilità di non poter eseguire, in alcuni casi, la seconda procedura di completamento. L’approccio proposto da Marco Di Eusanio et al., chiamato “frozen elephant trunk”, ha il vantaggio di effettuare la procedura in una sola volta, utilizzando una protesi ibrida costituita prossimalmente da una protesi vascolare in Dacron e distalmente da un’endoprotesi in nitinolo autoespandibile.
La casistica riportata dagli autori (87 pazienti) è di tutto rispetto; nonostante la presenza di casi complessi con numerose dissezioni aortiche, molti reinterventi ed un elevato numero di procedure cardiache associate,
la mortalità riportata (12.6%) è sovrapponibile a quella della letteratura associata al trattamento “elephant trunk” convenzionale. Nonostante un’incidenza non trascurabile di complicanze neurologiche, i risultati dello studio di Di Eusanio sembrano incoraggianti e la metodica “frozen elephant trunk”
è destinata a suscitare interesse nel mondo della cardiochirurgia, soprattutto per la possibilità di effettuare in un solo tempo la sostituzione dell’arco aortico e il trattamento dell’aorta toracica discendente. •




Lo studio Mattone Outcome-BYPASS:
un “mattone” dopo l’altro, sta crescendo il progetto di monitoraggio della qualità in area cardiovascolare in Italia
La valutazione della qualità delle prestazioni erogate dalle strutture sanitarie rappresenta un elemento fondamentale nell’ottica di garantire al cittadino un elevato livello di assistenza. In alcuni paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, i sistemi sanitari prevedono un organismo istituzionale deputato al controllo della qualità dell’assistenza sanitaria che produce annualmente report nei quali vengono elencati ospedali ed esiti di prestazioni; gli indicatori di qualità, in alcuni paesi, vengono calcolati non solo per struttura ma anche per singolo operatore.
L’Italia ha sviluppato negli ultimi anni
il “Progetto Mattoni del SSN Misura dell’Outcome” costituito da quattro sperimentazioni dell’area cardiovascolare tra cui lo studio “Mattone Outcome-BYPASS”,
i cui risultati sono presentati in questo numero del Giornale. Gli autori hanno preso in esame un discreto numero di variabili, tra cui la mortalità a 30 giorni, che rappresenta un forte indicatore di qualità per interventi di bypass. Purtroppo, dei 90 centri censiti, solo 26 hanno effettivamente aderito e trasmesso dati relativi ad interventi di bypass aortocoronarico; non si può quindi escludere un processo di “autoselezione” da parte dei centri che ha limitato la partecipazione allo studio a strutture di “buona qualità”, anche in termini di risultati ottenuti sui pazienti. Comunque, lo studio di
Fulvia Seccareccia et al. ci offre un’eccellente fotografia di una buona parte della cardiochirurgia italiana e dimostra come, “un mattone dopo l’altro”, il progetto di monitoraggio della qualità in area cardiovascolare stia prendendo forma anche in Italia.




documento di consenso

Si può organizzare un monitoraggio remoto dei dispositivi impiantabili?
La risposta nel Documento di Consenso dell’Associazione Italiana di Aritmologia
e Cardiostimolazione
Il progressivo invecchiamento della popolazione, il numero crescente dei pazienti scompensati e l’ampliarsi delle indicazioni all’impianto di defibrillatore, hanno portato ad un elevato numero di dispositivi impiantabili da controllare; questo carico di lavoro appare difficilmente sostenibile a breve-medio termine per le strutture sanitarie ed un sistema di monitoraggio remoto dei dispositivi impiantabili potrebbe contribuire a facilitare e rendere più rapido ed efficace il follow-up di tali pazienti.
Il Documento di Consenso proposto dall’Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione (AIAC) offre una panoramica delle tecnologie di telemonitoraggio disponibili, analizzando nel dettaglio i dispositivi messi in commercio dalle quattro maggiori aziende produttrici del settore. Il concetto che viene giustamente stressato è che questi dispositivi possono essere considerati affidabili se utilizzati in alternativa al controllo periodico ambulatoriale del dispositivo, per ridurre il carico di lavoro della struttura clinica e gli accessi da parte del paziente. Non si deve però pensare di poter usare questi strumenti
anche per il controllo dello stato clinico del paziente e per la gestione degli eventuali allarmi. In questo contesto, la qualità della ricezione del dato non può essere garantita perché dipende dall’affidabilità delle tecnologie impiegate per la trasmissione (rete GSM, UMTS e servizio ADSL), per molte delle quali non esiste tuttora una certificazione per uso specifico in campo medico come servizio di emergenza. Nel documento si prende in esame anche l’aspetto economico; dagli studi effettuati, anche considerando la spesa aggiuntiva per la realizzazione del controllo remoto, sono sufficienti pochi anni per superare il “break-even-point” e rendere lo strumento economicamente vantaggioso rispetto al controllo ambulatoriale. •